Poesie
da Lechitiel (terra d’ulivi edizioni)
poema catalogato alla BPI del Centro Pompidou di Parigi
Nell’assenza di te assenzio
tra miliardi di parole vuote che non mi interessano
dentro voci che mi entrano e mi escono
a cui non ho chiesto né di entrare né di uscire.
Nell’assenza di te assenzio
sulla pagina di un giornale che non leggo
in questo bar che non saprei riconoscere una volta fuori
girando per la sesta volta il caffè che berrò
mentre la tazzina sotto gli occhi mi scompare.
Nell’assenza di te assenzio
sottoposto ad un quotidiano scorrere di immagini
e all’insopportabile sonoro dell’uomo che deve parlare
e lamentarsi e polemizzare e sottolineare.
Nell’assenza di te assenzio
fisse le mani al carrello volando tra prodotti alimentari
che soltanto intravedo ai lati passare
o assorto nel mantra rotante di una lavanderia a gettoni;
ascoltando senza ascoltare
venditori ambulanti, pizze surgelate, testimoni di Geova, frati, mormoni;
annuendo con eguale sorriso
alla vecchia ipocondriaca che mi assilla
con la sua sinusite ed i suoi irrimediabili dolori.
Nell’assenza di te assenzio
tra clacson che mi insultano barbarici
perché non scatto a semaforo verde.
Sotto la doccia che mi lava
nello specchio che mi pettina
nell’anonimità di un viale affollato
nel confessionale che mi assolve dal peccato,
nell’assenza di te assenzio
e rispondo a chi si aspetta una risposta;
guardo negli occhi chi mi cerca lo sguardo
ma sono sempre da un’altra parte,
presente altrove,
in un posto assai più lontano da dove mi vedi.
Un luogo questo che non saprei indicarti
se tu volessi raggiungermi un giorno:
è simile ad una camera oscura
dove ci sono tante parole che ti girano attorno
in attesa che l’angelo le chiami per condurle ai poeti
che alla terra le daranno con le mani
e con lacrime amare
ad un pugno di anime mute.
Dal catalogo d’arte “La carne dell’anima” a cura di Gabriella Grande (terra d’ulivi edizioni)
“La Valchiria” (Inchiostro su foglio Fabriano, 50x36 cm)
“Non potendo più amare chi amava
sprofondò in un regno inferiore,
un piano astrale ove la speranza agonizza col sogno
nell’angolo più tetro della terra.
Non potendo più amare chi amava,
una patina di brina manteneva il cuore ibernato
e la mente fissa al quadro evanescente di una felicità che poteva proseguire,
che poteva continuare a maturare
ricostruendo lo scenario primigenio di quando l’anima era un dio disincarnato.
Non potendo più amare chi amava,
le papille gustative rifiutavano il sapore
e la bocca resisteva al cibo non più dato dalla sua bocca.
Non potendo più amare chi amava,
la cancrena fiorì nel grembo
come un giglio ancora puro che però si cinge di bugie e ragnatele
dando origine all’innesto dell’amara edera della melanconia.
Non potendo più amare chi amava, tentò di amare tutti.
Ma la somma di tutti gli occhi non dava la sua anima
e la somma di tutte le materie non il suo corpo.
Tutto non le bastava. Aveva bisogno di lei.
Perché ogni rondine ha il suo nido insostituibile
e una metà un incastro immutabile per una sola altra metà.”
Da “La Castità” (Ensemble edizioni, Roma)
Finalista al Premio Europeo Clemente Rebora 2019
Lo specchio del mattino
Mi cerco nello specchio ogni mattina.
È strano.
Mi ho davanti ma non mi trovo.
Forse non sto guardando di più
che uno scimmiotto in simile lattice,
che mi fissa perché lo fisso
e che sta immobile perché sto immobile,
qui, davanti a me,
qui, davanti.
Mi guarda da dentro il vetro, assente,
fermo ed assente.
Se io non gli ordino il movimento
se ne sta lì, dritto come uno stoccafisso.
Sta lì, completamente disanimato.
Sta lì, privo di gioia e di dolore,
in attesa di comando
come un sacco qualsiasi,
un già cadavere in piedi,
un morto eretto,
tradito da un riflesso,
smascherato.
Più lo osservo attentamente
più ne scopro la finzione,
il trucco straordinario.
No, non è me.
Non sei io, non sei.
Sì, lo ammetto,
ancora mi servi perché mi occorre
una mano per scrivere.
Ma tu sei solo un mezzo
e per giunta espiatorio.
Chissà se hai un interruttore nascosto
da qualche parte.
Potrei spegnerti ed andarmene.
Potrei essermi stancato di giocare ad essere te.
Mio Dio, dove sono?
Sono dentro un robot di carne
che ora è dentro uno specchio ovale,
che ora è dentro questo bagno,
dentro questa casa,
dentro questa via,
dentro questo paese,
dentro, dentro, dentro,
fino all’universo,
dentro all’infinito,
così infinitamente immenso
e così infinitamente piccolo.
Un infinito
che è principio e fine di se stesso,
come due infiniti opposti e distanti
che però sono lo stesso
e nello stesso infinito.
Mi cerco nello specchio ogni mattina.
Non vedo più che un povero fantoccio,
un’immagine che dico mia
perché non ho immagine.
Un’immagine costretta a prestarmi la sua immagine
e io costretto ad accettarla.
Per quanto poco tempo cammineremo insieme,
sappi che non ti amerò
e non ti ho mai amato.
Un giorno ti lascerò
e tu farai la fine di una latta vuota
non riciclabile.
Ma che te ne importa:
è in virtù di me che vivi,
mio stanco e sgraziato
pupazzo mutante.
Da qualche parte io sono,
lì dentro di te, sì,
da qualche parte,
dentro di te io sono.
Dentro di te,
dentro lo specchio ovale,
dentro questo bagno,
dentro questa casa,
dentro questa via,
dentro questo paese,
dentro, dentro, dentro.
Così mi vedo
senza vedermi
e non vedendomi ho la conferma di Dio
e di tutte le sue creature
che stanno aspettandomi,
anch’esse, da qualche parte, invisibili agli occhi,
anch’esse forse cercandosi invano
in un riflesso;
ingabbiate cavie da laboratorio,
recluse,
tenute nascoste a se stesse
dentro una menzogna,
toccando cose,
annusando profumi,
assaggiando sapori costruiti apposta;
indotte ad amare, a lottare, a soffrire
e quel che è peggio a pensare
come se mai bastasse,
fino alla morte dell’asino.
Ci vuole poco a essere un’ombra
Una giostra di cavalli bianchi,
una lunga tavolata di francesi
dominante piazza grande,
rumore di bicchieri,
voci che non comprendo,
giochi che non più mi riguardano:
divertimenti qua e là sparsi
che non mi rendono affatto nostalgico
del tempo in cui godevo del tempo.
Prima impari a camminare in fretta,
prima arrivi.
Bisogna soffermarsi il meno possibile
e accontentarsi dei propri panni.
Mi addentro in una stretta viuzza
per non incontrare nessuno:
oltre i portoni
le finestre emanano
odore umido di famiglia.
Un antiquario propone angeli d’ottone.
Contemplo il miracolo della luce
in una piccola lanterna accesa
sotto l’effigie scalcinata di una madonna.
Sul mio cammino una coppia irriverente:
non si sfalda né si sposta.
Viene dritta verso di me come un ariete.
La schivo io,
prima che mi frantumi.
Mi c’è voluto poco a essere un’ombra,
ora d’erba, ora d’asfalto,
con la mia stessa andatura goffa,
spalle avanti, schiena curva.
Con quella solita andatura
scoglionata, stanca,
per cui ancora mi riconosco
figlio di mio padre.
Ci vuole poco a essere un’ombra,
un nulla impresso sui muri di calce,
stretto e lungo per le discese,
spezzato sulle gradinate,
buio su buio,
vuoto ambulante.
Pietoso riflesso di me,
del mio io arreso
che mi cammina accanto.
Se mi fotografi non chiedermi di sorridere
Ho timore delle fotografie.
Quando mi aprono gli album di famiglia
sembra di sfogliare l’archivio
dei desaparesidos.
Nelle foto sorrido di rado: mi riconosci subito.
Non sorrido perché dietro l’obiettivo
c’è qualcuno che mi sta ordinando di sorridere.
Tutti che sghignazzano come babbei:
“cheeeeeese”.
Mentono alla pellicola sapendo di mentire
per poi dimenticarsi di quella fotografia
e riscoprirla per caso dopo cinquant’anni
in una scatola di bottoni
sotto una pila di polvere.
E sospirare:
“ah, che bei momenti”.
Non importa se quel giorno
hai bucato una ruota e
tornato a piedi fino a casa
hai sorpreso la tua fidanzata
a letto col tuo migliore amico.
Nella fotografia sorridi.
Le fotografie non servono a ricordare il passato
ma a falsificarlo.