Resto spaesata, a volte, dinanzi all’enorme offerta di canali e programmi televisivi che oggi abbiamo a disposizione. Troppo abbondante e, spesso, di scarsa qualità, per cui, prima di trovare qualcosa che valga la pena di vedere, si deve fare una lunga e attenta selezione. Ci sono i canali tematici per gli appassionati di alcune materie, hobby e generi cinematografici e tantissimi dedicati ai bambini. Chi appartiene alla mia generazione ricorderà che, quando eravamo bambini, i canali erano pochi e la scelta ancor di più. Ho trascorso i primi anni della mia vita guardando i film di Shirley Temple, i classici del western, il mago di Oz (1939), il lago dei cigni (del 1981, cartone antesignano de “La principessa del lago”), e, soprattutto, quelli di Totò.
Ne ho visti tanti, se non tutti, e più volte, ma pur amando il principe della risata, con il tempo sono finiti nel dimenticatoio. L’altro giorno, parlandone con mio figlio, sono rimasta sorpresa quando mi ha rivelato di non aver mai visto “Miseria e nobiltà”. L’ho ritenuta una mia grave mancanza, dal momento che sto cercando di inculcare nei miei figli un’adeguata cultura cinematografica, al di là del gusto personale. Ed un cult del cinema come questo non può mancare all’appello. Ho rimediato subito e l’ho costretto a vederlo all’istante. Era un po’ ricalcitrante inizialmente, ma dopo i primi momenti di perplessità l’ho visto via via apprezzare sempre di più la comicità semplice, genuina, spoglia di fronzoli e volgarità di questo film. Oltre ad essere un pezzo di storia del cinema, è anche un affresco della vita a Napoli, alla fine del 1800. Totò interpreta Felice Sciosciammocca, maschera reinventata e portata sulle scene da Eduardo Scarpetta e divenuta celebre grazie all’eccezionale attore partenopeo. Di professione scrivano squattrinato e sciupafemmine, Felice condivide casa, sventure e miseria con l’amico Pasquale, fotografo ambulante e le rispettive famiglie. I due vivono alla giornata, cercando di sfuggire ai creditori e di raggranellare qualcosa per sfamare mogli e figli, ma con scarso successo. Ormai sono ridotti alla fame, quando la fortuna va loro incontro nei panni di don Luigino, un giovane benestante che si innamora di Pupella, la figlia di Pasquale. Luigino viene a sapere che la sua amata non mangia da diversi giorni, quindi salda i debiti di Felice e Pasquale e invia loro un lauto pasto, ordinato al ristorante. Pupella, Felice e la compagna Luisella, Pasquale e sua moglie Concetta credono di avere le allucinazioni per la fame, quando il cuoco allestisce dinanzi ai loro occhi un banchetto coi fiocchi. Appena questi si allontana si avventano tutti sulla tavola imbandita. E’ memorabile la scena in cui Totò e gli altri protagonisti mangiano gli spaghetti con le mani, accennando una tarantella. Chi non l’ha mai vista? La fortuna bussa una seconda volta alla porta di Felice e Pasquale quel giorno. Il marchesino Eugenio è innamorato della bellissima Gemma, una ballerina di teatro e sorella di don Luigino, ma i suoi parenti altolocati non approvano la sua unione con una borghese. Paga, allora, gli squattrinati per fingersi la sua nobile parentela. Vestiti rispettivamente da marchese, principe di Casador, contessa e contessina del Pero, Felice, Pasquale, Concetta e Pupella vanno a casa di don Gaetano, per chiedere la mano di Gemma, ma giunti lì la vicenda si ingarbuglierà creando una serie di equivoci, che si concluderanno con un lieto fine, per tutti, o quasi.
Un film che con la sua schiettezza e semplicità strappa sorrisi autentici ed un momento di vero svago e spensieratezza.
Alla fine mio figlio, che appartiene alla generazione dei filmoni dagli effetti speciali sensazionalistici mi ha detto: “Mamma, avevi ragione, avrei dovuto vederlo prima”. E , quando un figlio adolescente per una volta ti dà ragione, è una grande soddisfazione.
Cinema
Il 15 giugno si è spento a Roma, all’età di 96 anni, uno dei più grandi registi, sceneggiatori, scenografi del cinema italiano, Franco Zeffirelli.
Di origini fiorentine, secondo un’indagine genealogica condotta da due studiosi, si suppone che fosse imparentato con Leonardo da Vinci.
La cosa non lascia stupiti, dinanzi alla sua acclarata indole creativa e geniale, che ha fruttato veri e propri gioielli, come il suo “Romeo e Giulietta”, l’”Amleto”, “La Traviata”, “Fratello sole, sorella luna”, per citarne alcuni.
Per il suo lavoro Zeffirelli ha tratto ispirazione dalla Bibbia, dalla lirica, da grandi classici della letteratura ed è stato più apprezzato all’estero che in Italia, tanto da sentirsi spesso straniero in patria.
I suoi film, infatti, sono per lo più produzioni internazionali, con la partecipazione di attori del calibro di Richard Burton ed Elizabeth Taylor, Charlotte Gainsbourg, Judi Dench e Cher.
La sua passione per Shakespeare, del quale ha portato sulle scene e sugli schermi numerose opere, gli è valsa la nomina a Sir, da parte della regina Elisabetta ed è l’unico italiano ad averla mai ottenuta.
Nel 1969, per “Romeo e Giulietta”, fu candidato agli Oscar come miglior regista, premio che avrebbe meritato di vincere, perché nessun adattamento cinematografico della celebre tragedia shakespeariana è emozionante come quella di Zeffirelli.
È uno di quei film che hanno segnato la mia adolescenza, l’avrò visto decine di volte e, sebbene nel corso degli anni io abbia conosciuto altri Romeo e Giulietta, nel mio immaginario resteranno sempre scolpiti con i volti, i costumi, gli scenari di Zeffirelli.
Il suo talento è stato premiato con numerosi riconoscimenti ed oltre ad essere un grande artista, era un uomo anticonformista e appassionato.
È stato uno dei pochi artisti negli anni cinquanta a professarsi apertamente di destra e anticomunista, cattolico ed omosessuale.
La sua dichiarata omosessualità non ha mai ostacolato il suo rapporto con la Chiesa e con la fede, perché riteneva che se il rapporto carnale era peccato, doveva esserlo sia con un uomo che con una donna.
Era polemico, invece, nei confronti dei movimenti gay, perché pensava che banalizzassero e ridicolizzassero l’omosessualità. Quando ne parlava diceva:” Io sono omosessuale, non gay”
Ha avuto una lunga relazione con Luchino Visconti, con il quale ha convissuto per molti anni e ha costruito una sua famiglia adottando, già grandi, Pippo e Luciano che sono cresciuti con lui e con i quali ha avuto uno scambio d’amore genitore- figli pari a quello di una relazione biologica.
Tra le loro braccia si è spento nella sua casa di Roma, lasciando a tutti noi un patrimonio incommensurabile.
Lo ricorderò rivedendo alcuni dei suoi film: “La bisbetica domatica”, “Romeo e Giulietta” (ancora) ,”Fratello sole e sorella luna”, “Jane Eyre” e “Un tè con Mussolini”
Viaggio negli incantevoli paesaggi della Sicilia di “Nuovo Cinema Paradiso”
[vc_row][vc_column][vc_column_text]Trent’anni dopo l’uscita, la pellicola torna a essere protagonista
Questa è la storia rocambolesca del trentennale “Nuovo Cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore.
Le sorti del film cambiano radicalmente durante il suo percorso. Inizia nel 1988 con un flop nazionale, poi si presenta al Festival di Cannes con una versione ridotta e vince il Gran Premio della Giuria. Pochi mesi dopo si candida all’Oscar e nel marzo del 1990 lo vince come Miglior Film Straniero. Nel 1991 vince ben cinque premi BAFTA. Un’esperienza a dir poco clamorosa, che si snoda tra grandi delusioni e infinite soddisfazioni. Come un’Araba Fenice, il film rinasce e in poco più di un anno passa dalle “ceneri” alle “stelle” di Hollywood.
“Nuovo Cinema Paradiso” si presenta in più versioni di diversa lunghezza. L’originaria versione di 155 minuti fu un vero disastro, così Tornatore un anno dopo decide di sostituirla con una seconda versione ridotta di trenta minuti e la presenta a Cannes. In seguito nel 2002 esce una versione “director’s cut” di 173 minuti. Nel 2014 la pellicola si rilancia a Los Angeles in una nuova scintillante versione restaurata. A fine proiezione il pubblico americano si alza in una fortissima interminabile e commovente standing ovation. Nel novembre del 2018, in occasione del 30° anniversario, il film viene proiettato in tutti i cinema della Danimarca nella sua rinnovata versione. Insomma sembra che “Nuovo Cinema Paradiso” abbia una sua volontà propria che lo vuole di volta in volta sempre protagonista.
Sembra quasi inverosimile che nel novembre del 1988, il Cinema Aurora di Messina, a differenza di tutti gli altri cinema in Italia, fu l’unico a tenere il film per una settimana. Il gestore Gianni Parlagreco vide “Nuovo Cinema Paradiso” e se ne innamorò subito. Gli ritornò in mente tutta la sua vita da ragazzo, il suo amore per il cinema di provincia vicino a casa, la puzza di fumo di cui era impregnato tutto, le sedie di legno e una galleria completa degli svariati tipi di personaggi locali che frequentavano la sala. Anche a Messina il film non incassa, ma la passione per il cinema di Gianni, che si riconosce nel piccolo Totò, lo fa escogitare uno stratagemma: l’esercente lascia entrare gratis gli spettatori, ma all’uscita, se il film è stato di loro gradimento, possono pagare il biglietto. Fu così che progressivamente il film crebbe e arrivò a incassare settantadue milioni di lire solo a Messina contro l’incasso complessivo di 120 milioni in tutta Italia.
A ispirare il regista fu un fatto realmente accaduto nel 1977, durante uno dei suoi viaggi in Sicilia. Tornatore scoprì che il cinema della sua infanzia era stato chiuso. All’epoca accadeva continuamente, alcune città italiane rimasero senza cinema. In quegli anni le videocassette avevano preso il sopravvento e sembravano seriamente minacciare il futuro delle sale cinematografiche. Tornatore decise che era arrivato il momento di realizzare un progetto che si portava dietro da qualche tempo e si mise a intervistare i vecchi del posto, chiedendo loro di raccontare la storia del cinematografo. Il personaggio di Alfredo è ispirato ad Alfredo Vaccaro, puparo siciliano (siracusano) che raccontò a Tornatore il suo mestiere di proiezionista con tutte le limitazioni di allora. Ne nacque così “Nuovo Cinema Paradiso”, un film che è un tributo alla storia del cinema, alla vita, ma anche alla realizzazione dei propri sogni e a quelli infranti.
In questo film il regista siciliano, nativo di Bagheria in provincia di Palermo, ci porta a spasso per gli incantevoli paesaggi della Sicilia. L’immaginario paesino di Giancaldo, cornice della storia, è in realtà una montagna che sovrasta Bagheria, in provincia di Palermo. Mentre le scene ambientate nel presunto Giancaldo sono state realizzate a Palazzo Adriano, in provincia di Palermo. La bellissima piazza di Palazzo Adriano, con la caratteristica fontana bianca ottagonale in stile barocco del 1608, è il fulcro delle riprese, dove s’intrecciano le vicende del film. Oggi la piazza, a parte il traffico automobilistico, è rimasta invariata, così come le sue tre chiese. La chiesa di Maria Santissima Assunta, adornata di stucchi e impreziosita dall’arte dell’artista palermitano Giuseppe Patania, fa da sfondo alla vita degli abitanti di Giancaldo: donne che preparano l’estratto di pomodoro, il giovane Totò che si sofferma sui gradini a pensare ai consigli di Alfredo e così via. Mentre gli interni del Cinema Paradiso furono girati nella Chiesa di Maria Santissima del Carmelo, caratterizzata da un’unica navata e da un maestoso portone d’ingresso. Infine, s’intravede la chiesa di Maria Santissima del Lume, con la sua torre dell’orologio, verso la fine del film, quando Totò adulto partecipa al corteo funebre per Alfredo.
Ovviamente a Palazzo Adriano non troviamo il Cinema Paradiso, per quanto tutti i turisti chiedano dove si trovi. Il cinema, infatti, era uno scenario cinematografico che lo stesso regista fece distruggere in una delle scene finali. Ma a Palazzo Adriano oggi si può visitare il Museo “Nuovo Cinema Paradiso”, nel quale sono conservati alcuni cimeli, come ad esempio la bicicletta di Alfredo e moltissime foto del set, il tutto accompagnato dalla colonna sonora di Ennio Morricone. Certo, non tutte le scene furono riprese a Palazzo Adriano, alcune sono state girate al piccolo porticciolo di Cefalù, che nel film funge da Cinema Paradiso all’aperto durante il periodo estivo. Altre scene sono state realizzate in altri luoghi della provincia palermitana tra cui Castelbuono, dove nel Castello dei Ventimiglia fu ambientata la scuola di Totò. Le scene tra le strade bombardate, in cui Totò cammina con la madre dopo aver ricevuto la notizia della morte in guerra del padre, sono state girate a Poggioreale in provincia di Trapani, un paesino fantasma distrutto dal terremoto del 1968.
Il film è stato restaurato da Luce Cinecittà in collaborazione con il laboratorio bolognese, L’Immagine Ritrovata in occasione dei suoi venticinque anni. In un’intervista Il regista, dopo aver introdotto alla platea il film nella sua veste rinnovata, confessa: “Nuovo Cinema Paradiso è tutto per me, è grazie a questo film che ho potuto continuare a fare il mio mestiere. Un film stranissimo, che ancora oggi suscita nel pubblico un entusiasmo e una passione che m’imbarazzano. Decisamente un’opera che ha sempre fatto di testa sua.”
Vuoi scoprire i luoghi di “Malèna”, un altro film famoso di Tornatore girato nella Sicilia orientale, a Siracusa e Noto, e nella parte occidentale alla Scala dei Turchi, tutti luoghi che appartengono al patrimonio culturale dell’UNESCO?
Partecipa alla conferenza il 22 marzo. Qui il link per l’iscrizione:
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Danmarkspremiere il 28 februar
L’italiano Matteo Garrone (1968) ha avuto una svolta epica con la sua inedita, quasi documentaria, realistica “Gomorra” (2008), raffigurante il comportamento violento della camorra napoletana. Quattro anni dopo, era di nuovo sotto i riflettori con “Reality” (2012), una commedia colorata e divertente. Poi è arrivato il grottesco film fantasy barocco – o forse più film fantasy – “Tale of Tales” (2015). Con “Dogman”, Garrone è tornato al punto di partenza di “Gomorra”; vale a dire, il mondo sotterraneo violento, a testa bassa, criminale, che si trova alla periferia di molte delle città del sud Italia. Il film è stato presentato nella competizione principale a Cannes lo scorso anno, dove Marcello Fonte ha vinto il premio come miglior protagonista maschile.
Nella periferia di Roma, a via Magliana 253, nel quartiere Portuense, Marcello è un uomo che divide le sue giornate tra il lavoro nel suo modesto salone di toilettatura per cani “Dogman”, l’amore per la figlia Sofia e un ambiguo rapporto di sudditanza con Simoncino, un ex pugile che terrorizza l’intero quartiere.
Dopo l’ennesima sopraffazione, per riaffermare la propria dignità, Marcello mette in atto una vendetta terribile e dall’esito inaspettato.
Il commissario Montalbano, da lunedì 11 febbraio, i nuovi episodi.
La mia storia d’amore con il commissario Salvo Montalbano è iniziata prima che assumesse le sembianze di Luca Zingaretti.
Lo incontrai nel 1994, tra le pagine de “La forma dell’acqua”, il primo libro della lunga, fortunata serie che lo vede protagonista.
Mi immersi nella lettura e fui travolta dal suo fascino e dal suo carisma, complice la suggestiva ambientazione in Sicilia, di cui custodisco meravigliosi ricordi.
La scelta singolare e azzardata dello scrittore Andrea Camilleri, di usare un linguaggio che è una sapiente ed equilibrata commistione tra italiano e dialetto, si è rivelata vincente, perché dopo un approccio un po’ titubante, è facile lasciarsi andare alla musicalità delle parole, che rievocano all’istante il calore e il temperamento dei siciliani.
Leggere un libro di Camilleri è come fare ogni volta un viaggio in Sicilia, perché le sue descrizioni sono così ricche di dettagli da accendere l’immaginazione e il lettore si ritrova ad ascoltare la risacca, ad annusare finocchietto selvatico, ad assaporare la caponata di Adelina, la storica domestica di Montalbano.
Quando seppi che sarebbe stata fatta una trasposizione televisiva dei libri, mi preoccupai, perché nella mia fantasia il commissario Montalbano aveva già un volto e una voce e temevo di restare fortemente delusa dalla scelta dell’interprete. O peggio, che la visione di un prodotto deludente potesse inquinare quello che, nel mio immaginario, era il commissario Montalbano ideale.
Non accadde. Vedendo “Il ladro di merendine”, il primo episodio in assoluto, nel 1999, la figura di Luca Zingaretti si sovrappose immediatamente a quella elaborata dalla mia fantasia, con una perfezione quasi commovente.
Sono passati vent’anni da allora e non ho perso nessuno dei trentadue episodi andati in onda fino ad oggi. Sebbene la loro visione sia stata spesso preceduta dalla lettura del libro, ciascuno di essi mi ha coinvolta ed emozionata come se non conoscessi la trama.
Nel contempo, la lettura dei libri si è trasformata in un’esperienza differente dalle altre: ora che ogni personaggio ricorrente ha delle sembianze ben precise e una personalità definita, ogni volta è come ritrovare dei vecchi amici che non vedevo da tempo.
E a breve potrò incontrarli ancora, nei due nuovi episodi che andranno in onda su Rai 1: “L’altro capo del filo”, che sarà trasmesso il prossimo 11 febbraio e “Un diario del ‘43”, il 18.
Entrambi sono stati girati, come sempre, da Alberto Sironi e hanno come fil rouge lo scottante tema dell’immigrazione.
Il primo è ambientato in parte in Friuli Venezia Giulia, dove Montalbano si reca per assistere ad una cerimonia con Livia, mentre fervono i preparativi per le nozze fra i due eterni fidanzati. Nel frattempo, in Sicilia, un omicidio collegato allo sbarco dei migranti richiama all’ordine il nostro commissario. L’episodio è dedicato all’attore Marcello Perracchio, che interpretava il dott. Pasquano, venuto a mancare nel 2017 e il commissario Montalbano dirà addio all’amico anche nella fiction. Le gag tra i due personaggi resteranno nel cuore dei fan per sempre.
Nel secondo episodio, Montalbano trova un diario del 1943, che custodisce terribili segreti. Gli toccherà indagare per scoprire se si tratta di verità o fantasia, in un caso in cui si parla di immigrazione dall’Italia verso gli Stati Uniti.
Se qualcuno ha dei dubbi sull’esistenza dell’amore eterno, io sono la prova vivente che si sbaglia. Sono sicura che quello tra me il commissario Salvo Montalbano durerà per sempre.
Il potere evocativo delle parole è magico.
Quello che in apparenza potrebbe sembrare un banalissimo accostamento di due o più semplici paroline, può trasformarsi in un gancio in grado di ripescare nella nostra memoria colori, profumi, atmosfere, sensazioni ed emozioni, sorprendenti per vividezza ed intensità.
Qualcuno potrebbe pensare: – Che esagerazione! –
Farò allora un esempio, per spiegarmi meglio.
Prendiamo due comunissime parole, un sostantivo e un aggettivo e proviamo ad accostarli l’uno all’altro: notti magiche.
Tutti gli italiani che nel 1990 erano in grado di intendere e di volere e abbastanza grandi per ricordare, nel sentire queste due parole penseranno istantaneamente alla medesima cosa, a quell’indimenticabile estate dei Mondiali di calcio in Italia.
L’emozione per le strade era palpabile, ovunque risuonavano le voci di Gianna Nannini e Edoardo Bennato che cantavano il loro inno dedicato a quell’evento memorabile e per un po’ abbiamo assaporato il gusto della vittoria, fantasticato sui nostri campioni nell’atto di alzare al cielo la coppa più ambita, con orgoglio patriottico.
Che si fosse appassionati di calcio oppure no, era impossibile sottrarsi all’entusiasmo che si respirava nell’aria, tra l’onore per il nostro Paese di ospitare la manifestazione sportiva e le soddisfazioni di una Nazionale che ci ha fatti sognare, fino a quella sera del 9 luglio….
Sono certa che quasi tutti ricorderanno con estrema precisione quella serata, dove si trovavano, con chi erano, le emozioni che stavano provando. E ad accendere questo turbinio di ricordi, a far rivivere momenti così speciali, possono bastare due semplici parole. Se non è magia questa, ci si avvicina molto.
Proprio in questo scenario, Paolo Virzì ha deciso di collocare il suo ultimo film, Notti magiche per l’appunto, in cui le vite individuali si intrecciano con il vissuto collettivo di quel particolare momento.
In realtà il tema del film è incentrato sulle miserie e i fasti del cinema tra la fine degli anni 80 e l’inizio del decennio successivo, sul suo inesorabile declino al termine dell’ultima stagione gloriosa, raccontata attraverso le vicende di tre giovani aspiranti sceneggiatori, che sospettati dell’omicidio di un noto produttore, trascorreranno la notte, quella notte, nella caserma dei carabinieri per raccontare la loro versione dei fatti. Il regista ha scelto di ricorrere ad un’inconsueta liaison narrativa, tra il sogno del cinema che sfiorisce e quello calcistico di un’Italia intera sfumati nella stessa notte, ricordata poi come quella “degli errori”. Un po’giallo, un po’satirico, il film di Paolo Virzì è un nostalgico rendez-vous con la memoria, alla ricerca di quello che poteva essere e non è stato, perché tutti i sogni sono destinati a finire.
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La trasposizione cinematografica di “Il Gattopardo” (1963)
Il film “Il Gattopardo” di Luchino Visconti è la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Entrambi, il romanzo e il film, hanno avuto uno straordinario successo. Non di meno gli spettacolari palazzi e i luoghi delle riprese godono tuttora, dopo cinquantacinque anni, della fama gattopardiana e richiamano l’attenzione dei turisti.
Lo scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa 12º Duca di Palma, 11º Principe di Lampedusa, Barone della Torretta, Grande di Spagna di prima, nacque a Palermo il 23 dicembre 1896 e morì a Roma il 26 luglio 1957. Il suo romanzo narra delle trasformazioni avvenute nella vita e nella società in Sicilia durante il Risorgimento, dal momento del trapasso del regime borbonico alla transizione unitaria del Regno d’Italia, in seguito allo sbarco dei Mille di Garibaldi.
L’ironia della sorte volle che le principali case editrici italiane (Mondadori, Einaudi, Longanesi) rifiutassero di pubblicare l’opera di Tomasi di Lampedusa, ma nel 1958, un anno dopo la morte dell’autore, il romanzo fu pubblicato da Feltrinelli, vincendo il Premio Strega nel 1959 e diventando uno dei best-seller del secondo Dopoguerra! Oggi ”Il Gattopardo” è considerato uno tra i più grandi romanzi di tutta la letteratura italiana e mondiale.
Lo scrittore Tomasi di Lampedusa trasse ispirazione dalla sua famiglia per la stesura del libro, soprattutto dalla biografia del suo bisnonno, il principe Giulio Fabrizio Tomasi, che nel romanzo è il principe Fabrizio Salina. Il racconto inizia proprio nelle sontuose sale del Palazzo Salina, dimora del principe, della moglie Stella e dei loro sette figli e casa natale dello stesso autore. Purtroppo il palazzo del principe fu distrutto da un bombardamento nel 1943. Un altro palazzo importante, che nel romanzo prende il nome di Ponteleone, è il palazzo Monteleone, luogo in cui l’aristocrazia siciliana s’incontrava durante fastosi ricevimenti mondani. Sfortunatamente anch’esso inesistente sin dal 1906, quando fu demolito per dare spazio alla modernizzazione urbana della città. Per quanto riguarda l’immaginario feudo di Donnafugata, lo scrittore si era a sua volta ispirato ai luoghi della residenza estiva della sua famiglia. Possono, infatti, essere riconosciuti due paesi siciliani, luoghi molto cari allo scrittore; Tomasi così scrisse al Barone Enrico Merlo di Tagliavia: “Donnafugata come paese è Palma di Montechiaro, come palazzo è Santa Margherita di Belice”.
Luchino Visconti di Modrone, conte di Lonate Pozzolo (Milano, 2.11.1906 – Roma, 17.3.1976), è stato un regista e sceneggiatore italiano. Per la sua attività di regista cinematografico e teatrale e per le sue sceneggiature è considerato uno dei più importanti artisti e uomini di cultura del XX secolo. È ritenuto uno dei padri del neorealismo italiano, ha diretto numerosi film a carattere storico, dove l’estrema cura delle ambientazioni e le ricostruzioni sceniche sono state ammirate e imitate da intere generazioni di registi.
“Il Gattopardo” di Visconti ha vinto numerosi premi: ha ottenuto una candidatura all’Oscar, la Palma d’oro al regista al Festival di Cannes 1963, ha vinto tre Nastri d’Argento, un premio David di Donatello al Miglior produttore a Goffredo Lombardo, il premio Feltrinelli 1963 per le arti – Regia cinematografica e un National Board of Review Awards 1963 al Miglior film straniero.
Quali furono le scelte del regista per i set cinematografici?
Visconti, dopo aver letto più volte il romanzo, doveva risolvere alcune importanti questioni, infatti era necessario trovare i luoghi adatti a sostituire i palazzi descritti nel romanzo, che però nella realtà non esistevano più.
Se il regista avesse dovuto girare il film oggi, avrebbe avuto un paio di grattacapi in meno. In primo luogo nel 2015 è stato ricostruito il palazzo di Lampedusa, distrutto dalle bombe, da alcuni cittadini. Un gruppo di architetti ha restaurato ciò che rimaneva della villa con i propri finanziamenti e rispettando la struttura dell’edificio come appariva in origine. In secondo luogo oggi, a differenza dell’inizio degli anni ’60, si possono ricostruire interi scenari e palazzi con le tecniche digitali al computer.
Nell’autunno del 1961 Visconti fece dei sopralluoghi in Sicilia assieme allo scenografo Mario Garbuglia e l’organizzatore generale Pietro Notarianni, accompagnati da Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo di Tomasi di Lampedusa. Per quanto riguardava la residenza estiva del principe, il regista scartò fin dall’inizio il paese Palma di Montechiaro e il palazzo Santa Margherita di Belice. Visconti aveva inizialmente preso in considerazione il castello di Donnafugata a Ragusa, ma la struttura labirintica ben poco si prestava alle esigenze cinematografiche. Alla fine trovarono un paese assomigliante a quello descritto nel romanzo. Il paese si prestava in particolare per la chiesa che doveva essere limitrofa alla residenza estiva. A Ciminna Visconti s’innamorò della bella chiesa barocca, purtroppo c’era un grosso problema: mancava il palazzo del principe!
Il 14 maggio 1962 iniziarono le riprese.
Come riuscì il regista a ricostruire e sostituire i palazzi mancanti?
Quali furono le scelte per i luoghi dei set?
Come riuscì a ricreare l’arredamento degli interni come descritto nel romanzo?
Come riuscì Visconti, senza tecniche digitali, a eliminare tutti gli elementi della società moderna, come ad esempio i pali della luce e del telefono, le strade asfaltate e negli interni dei palazzi i radiatori, i lampadari e gli interruttori che in un film ambientato nell’Ottocento non possono assolutamente esserci?
Come riuscì a mantenere accese migliaia di candele durante le riprese della scena del ballo?
Come riuscì a filmare sempre perfettamente immacolati i guanti bianchi degli uomini nonostante il sudore per gran caldo?
Queste e molte altre curiosità potranno essere svelate nella mia prossima conferenza sui set cinematografici di “Il Gattopardo” che sarà i 2 novembre al FOF Gentofte.
Per ulteriori informazioni visitate il mio sito:
giulianamedia.dk
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“Sulla mia pelle”, il film/documentario sulla vicenda di Stefano Cucchi
Stefano Cucchi era stato un tossicodipendente, probabilmente era uno spacciatore e, forse, meritava di essere arrestato quella sera del 15 ottobre 2009, di essere processato e condannato alla pena prevista dalla legge.
Ma Stefano Cucchi era anche un figlio, un fratello, un amico e quello che sicuramente non meritava era di morire mentre era in custodia cautelare, solo, tra dolori lancinanti e con il pensiero di essere stato abbandonato dalla sua famiglia.
La storia di Stefano è una storia di violenza e di omertà perpetrata da chi dovrebbe garantire il rispetto della legge, dei diritti e della giustizia, che è venuta alla luce grazie alla tenacia e alla forza di Ilaria Cucchi, che non si è rassegnata alla morte inspiegabile del fratello, avvenuta il 22 ottobre dopo sette giorni dall’arresto.
Nessuno sa cosa sia accaduto veramente a Stefano in quei drammatici 7 giorni, ma dopo quasi 9 anni, due inchieste, un processo già conclusosi ed un altro in corso, la verità sta lentamente venendo a galla, nonostante i depistaggi, le falsificazioni dei verbali e degli atti processuali, le false testimonianze e le omissioni e, forse, giustizia verrà fatta. Il forse è d’obbligo, perché la giustizia è morta la sera di quel maledetto 15 ottobre, mentre due carabinieri massacravano di botte Stefano Cucchi ed altri colleghi coprivano il loro misfatto, mentre polizia penitenziaria, medici, infermieri e persino il pubblico ministero e il giudice all’udienza per la convalida dell’arresto, nella più totale indifferenza, chiudevano gli occhi dinanzi a quel giovane, che aveva difficoltà a parlare a causa della mandibola fratturata e si reggeva a stento in piedi, con due vertebre lesionate.
La giustizia muore ogni volta che qualcuno che dovrebbe farsi garante del rispetto della legge, rappresentarla, portare il vessillo della legalità, si convince che la propria autorità lo autorizzi a travalicare proprio quella legge che dovrebbe difendere.
La giustizia muore ogni volta che qualcuno viola i diritti civili di un altro uomo o sceglie di fare quello che è più facile e non ciò che è giusto, ogni volta che burocrazia, indifferenza, ambizione smodata, perdita di valori sopraffanno l’umanità.
Il caso di Stefano Cucchi è solo uno tra le centinaia di morti in carcere, venuto alla ribalta, perché la sua famiglia non si è arresa e la sua storia è stata raccontata in un film/documentario scritto e diretto da Alessio Cremonini,” Sulla mia pelle”, presentato alla 75 ° edizione della mostra del cinema di Venezia e distribuito da Netflix, proprio in questi giorni.
Uno straordinario Alessandro Borghi, nei panni di Stefano Cucchi, porta in scena quell’ultima straziante settimana di agonia del giovane in carcere, secondo una ricostruzione degli eventi effettuata attraverso le testimonianze e gli atti processuali. Un film che scuote le coscienze e fa accapponare la pelle, difficilissimo da digerire, perché rivela verità scomode, che vorremmo non dover conoscere mai e spalanca le porte su realtà e mondi di cui preferiremmo ignorare l’esistenza.
Diretta da Paolo Genovese, “Perfetti sconosciuti” è una commedia che nel 2016 ha vinto sia il David di Donatello che il nastro d’argento come miglior film.
Frutto di un’idea tanto semplice quanto geniale, tutti gli eventi si svolgono in un unico tempo e in un unico luogo, una sera a cena, in un appartamento romano, durante un’eclissi totale di luna. Tre coppie, Rocco ed Eva, Carlotta e Lele, Cosimo e Bianca, e Beppe, che avrebbe dovuto portare con sé la nuova fidanzata Lucilla per presentarla agli amici ma si presenta solo, si riuniscono per cenare insieme. Si conoscono da molti anni, trascorrono insieme le vacanze estive, festeggiano insieme tutti gli eventi lieti e condividono i momenti brutti, sono sicuri di conoscersi alla perfezione l’un l’altro, ma durante la cena la discussione si incentra sui segreti che ciascuno può avere, nascosti nei telefoni cellulari, che sono diventati le scatole nere delle vite di tutti. Eva propone un gioco: i commensali dovranno lasciare i cellulari su tavolo e rispondere a chiamate, sms ed email in vivavoce, condividendone i contenuti con tutti i presenti. C’è chi accetta di buon grado e chi, dopo qualche resistenza, si vede costretto a partecipare. La serata prenderà una piega inaspettata per tutti.
Un film davvero ben fatto, in cui lo spettatore si sente partecipe degli eventi, come se fosse seduto a quella tavola, in quell’atmosfera intima e familiare. Un cast di attori affiatatissimi riesce a dare vita a personaggi molo ben caratterizzati, sia individualmente che nelle relazioni tra loro, con un Marco Giallini superbo come sempre, mentre gli altri gli tengono egregiamente testa.
Man mano che i segreti vengono fuori, lo spettatore scopre debolezze, vizi, difetti, errori, fragilità che svelano la profonda umanità dei personaggi, nella quale non può fare a meno di rispecchiarsi.
Una commedia dai dialoghi brillanti, in cui si ride di gusto, ma a tratti molto amara, che lascia aperti molti interrogativi, sull’uso che facciamo dei cellulari, su quanto sappiamo davvero delle persone che ci sono accanto ogni giorno e crediamo di conoscere e, soprattutto, siamo proprio sicuri di volerle conoscere davvero?
Il film si conclude con un finale a sorpresa e con una semplice, ma fortissima verità, “siamo tutti frangibili”.
Dopo il grande successo di “Chiamami con il tuo nome”, Luca Guadagnino torna nelle sale con il remake del celebre horror di Dario Argento, “Suspiria”, presentato in anteprima mondiale il 1°settembre, in concorso alla Mostra del cinema di Venezia.
Più che un remake, per Guadagnino si tratta di un omaggio alla forte ed indimenticabile emozione che provò, guardando l’originale per la prima volta. Un’emozione talmente potente da essere rimasta sopita per anni dentro di lui, come il fuoco che cova sotto la cenere e non aspetta che un alito di vento per rianimarsi. In passato, varie volte il regista aveva rispolverato questa idea, che sepolta sotto altri progetti più contingenti, non aveva mai smesso di pulsare, fino a quando non è riemersa, con tutta l’urgenza di qualcosa che non può più essere rimandato. Ed eccolo qui, finalmente.
È ambientato nel 1977, l’anno in cui uscì il film di Dario Argento, a Berlino e non a Friburgo come l’originale e in una scuola di danza contemporanea, anziché classica. Il “Suspiria” di Luca Guadagnino vanta un cast di attrici di grande personalità e carisma, come Tilda Swinton, nei panni di Madame Blanc, personaggio ispirato alla coreografa Mary Wigman, pioniera della danza libera esistenziale in Germania, con la sua Hexentanz (danza delle streghe); Mia Goth, che pur essendo giovanissima ha già recitato in ruoli complessi con registi del calibro di Lars Von Trier; Chloe Grace Moretz, veterana dei film horror con i suoi “Amityville” e “Lo sguardo di Satana-Carrie”; Dakota Jhonson, venuta alla ribalta interpretando Anastasia nella serie cult di “Cinquanta sfumature di grigio”; Jessica Harper, protagonista del “Suspiria” argentiano e che dopo 40 anni torna su questo nuovo set, con un personaggio diverso. L’uscita del film al cinema è prevista in autunno negli Stati Uniti, ma non ci sono voci ufficiali sulla data in Italia.
Nel frattempo, da appassionata di film horror quale sono, ho deciso che non leggerò recensioni prima di vederlo, perché sono già ben fornita di preconcetti sui remake che, di solito, mi deludono, specialmente quelli di grandi classici come “Suspiria”. Lascerò, dunque, questo mio bagaglio a casa, portando con me solo i buoni motivi che ho trovato per andare a vedere questo film, il primo dei quali è che Luca Guadagnino è un regista brillante ed io ho molto amato i suoi lavori precedenti. È agli antipodi rispetto a Dario Argento e, dunque, sono molto curiosa di scoprire come abbia riletto e reinterpretato il più inquietante dei film del maestro dell’horror italiano. Sarà emozionante, poi, rivedere in questo film Jessica Harper, attrice di grande talento, che ha però centellinato la sua presenza cinematografica e si vocifera che Luca Guadagnino abbia dovuto sudare, perché accettasse la parte. E sarà emozionante assistere all’interpretazione corale delle attrici, nei panni delle streghe, combinata con scenografia, fotografia, luci, colonna sonora firmata Thom Yorke, cantante dei Radiohead, come avviene in quella grande alchimia, chiamata cinema.